«Eravamo seduti su una panchina, era l'una di notte, avevamo davanti un mare profondamente nero e secco. Ricordo delle nuvole, ma forse accavallo quella notte ad un'altra».
Mentre mi raccontava restai in silenzio, so che un buon racconto inizia con un buon silenzio di chi lo ascolta.
«Ci incontravamo di notte, restavamo sempre fino a tardi, come se al mattino tutto finisse. Tentavamo d'allungarle oltre l'estremo limite, all'alba. Io guardavo avanti, fisso, non avrei saputo in quale altro posto tenere lo sguardo. Osservavo un punto indefinito oltre la riva del mare. Intendo la riva del mare dall'altra parte del mondo. Fissavo un punto nel buio sulla linea impercettibile dell'orizzonte, guardavo oltre. C'era qualcuno lì intorno, al di là di noi. Non ricordo bene, ma man mano la gente iniziava a sparire. Ero troppo distratto per accorgermi dove andasse a finire, credo semplicemente rientrasse in casa.
Lei mi parlava a singhiozzo. Mi spiegava i motivi senza usare mai dei precisi perché. Non ne aveva il coraggio, pensavo.
A un certo punto nel buio apparve la poppa illuminata di una barca a remi. C'era un uomo chino sull'acqua. Cercavano i pesci. Lì per lì mi distrassi.
Mi distrassi quando mi resi conto di quanta poca luce servisse ad illuminare il fondo del mare. Ripensai alle parole appena ascoltate e mi venne una gran voglia d'urlare».
«L'hai fatto?» chiesi.
«Certo che no. C'era un silenzio assoluto, era impensabile urlare»
«Eppure forse sarebbe servito»
«Sì, credo anch'io. Sarebbe servito, ma poi non avrei saputo ascoltare più nulla. Restai in silenzio, urlando dentro. Ogni tanto domandavo qualcosa. Passava sempre un secondo prima di ricevere una risposta adeguata e nell'attesa mi veniva voglia di chiedere sempre di più. Risposte più esatte, precise. Volevo avere risposte che non lasciassero dubbi».
Ero in silenzio anch'io e anch'io avrei voluto fargli molte domande. Sul perché fosse lì quella sera, sul perché non fosse andato via prima.
«Io quelle parole le avevo già sentite» mi disse. «Credo di saper ascoltare meglio i silenzi delle parole. Non ne sono del tutto certo, ma inizio a credere che c'è qualcosa, dentro i silenzi, che io afferro prima degli altri, prima delle parole»
«E allora perché non le hai chiesto di restare in silenzio?»
«Perché è in me un frusciare continuo. Dopo i silenzi, mi attraversano parole e pezzi di parole, continuamente. Le scompongo, le ricompongo, costruisco, decostruisco, nell'attesa di una risposta»
«A quale domanda?» chiesi.
«A nessuna domanda, aspetto la risposta ad uno stato d'animo incerto. Ad un vuoto di senso, a qualcosa che afferro ma che non riesco a capire. Una domanda che è fatta di sensazioni, che ha senso porre e vuole una risposta fatta di sguardi, gesti, accenni e sussulti. Ma poi non la tollero. Cerco una risposta che poi io non tollero se l'incertezza non svanisce del tutto».
«Credo di non seguirti più» gli dissi con sincerità.
«Immagina d'essere un pesce rosso. E immagina d'essere in una boccia di vetro al centro di un tavolo. Ci sei?»
«Sì, continua pure» risposi.
«Ecco, io a volte sono quel pesce. Percepisco suoni, rumori, colori, sapori, gli odori, la realtà tutta, amplificata. La percepisco, eppure so che è il muro dell'acqua ad amplificarla. E mi serve un modo per adeguarla alle giuste misure. Per riportarla alle giuste misure io ho bisogno di trovare risposte esatte e precise come un sonar nel buio»
«Non puoi avere sempre una risposta esatta, la maggior parte della gente non le ha nemmeno per sé le risposte esatte»
«Ecco, questo lo so. È per questo che le mie domande sono sempre tante e precise. Come se mi aspettassi di comporre le risposte a piccoli pezzi».
«Quando forse invece basterebbe una sola domanda precisa, del tempo per elaborarla e la pazienza di aspettare una risposta che sia ben scelta e pensata...» risposi io, stavolta d'impulso. E lui rimase in silenzio.
«Ho in me domande lunghe e complesse e pretendo risposte che accorcino le mie percezioni, hai ragione. Forse dovrei smetterla di sentirmi il pesce e di chinarmi sull'acqua a cercarmi» mi disse. «Quella sera comunque tutto finì. Lei non aveva risposte per sé e io mi diedi da me quelle di cui avevo bisogno. Rimasi a guardare le lampare però. L'acqua era così trasparente che si riusciva a vedere il fondo del mare» concluse e aggiunse «A ben pensarci, io non sono un pesce rosso, ho in me luci che illuminano bene al fondo e forse ogni tanto dovrei solo sollevare lo sguardo e senza risposte fidarmi del buio, fin'oltre al suo limite, all'orizzonte».
domenica, maggio 13, 2012
Le storie di me che tesso per me | Le lampare
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento