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sabato, ottobre 27, 2018

Non sei mica fatta di zucchero

Ho addosso una stanchezza così stretta, densa, rigida, agguerrita, che non so più come scioglierla.
È la stanchezza dolce delle spalle che vogliono stare sempre dritte, di tutte le cose da difendere per non diventare cinica, disillusa, arrendevole. È la stanchezza ovattata di tutti i passi scalzi sul pavimento tornando a casa la sera dal lavoro, delle cene saltate, dei pranzi della domenica da sola.
È la stanchezza affollata da tutti i racconti densi, accalorati, timidi che ho ascoltato in silenzio per esserci, per essere presente con chi mi voleva accanto, vicino, lontano, tutti i giorni, la notte.
È la stanchezza attenta a tutti i gesti che noto, che faccio, che cerco di non far mancare.
È una stanchezza aggressiva, che non tollera il tempo sprecato in questioni di poco valore, in letture scadenti, in conversazioni spente. È la stanchezza delusa di una lunghissima attesa, iniziata tra i giardini di una città lontana, e disattesa. È una stanchezza furiosa verso gli errori che sapevo di dover evitare e non ho evitato. È una stanchezza rigorosa che attanaglia di impazienza tutte le cose che voglio fare e che farò.
Una stanchezza che mi conosce e fa di tutto per alleggerirsi nel cuore della notte, mentre aggiungo e tolgo desideri dal mio elenco infinito.
È la stanchezza che mi porto dentro per provare a diventare ciò che desidero essere.
E ci riuscirò. Mi disse mentre con il dito faceva rotolare sul tavolo di legno due granelli di zucchero, bianco.


giovedì, aprile 28, 2016

Il tempo che passa

Poi lo rincontri per caso, che non te lo aspetti, giri un angolo ed è lì.
- Ti ho letto sai?
- Sì me ne sono accorta.
Non è più come lo ricordi, ha gli occhi accesi, le mani ferme.
- Stai bene?
Non rispondergli, non chiedertelo.
- Stai bene?
Ci sono un sacco di no che dovresti dirgli da anni, ma non farlo.
- Sembri cambiata
Lo sei, si sente appena parli.
- Sì, un po' sì.
Forse non gli piaci, o magari sì. Tu non chiedergli nulla.
- Ti va se ti accompagno?
Digli di no. Digli di no.
- Sì, se ti va
- Certo che mi va, sono venuto fin qui per te
Non chiedergli nulla. Non dimenticarlo.
- Hai cambiato taglio di capelli, ti sta bene
- Grazie
Ti vuole fare quella domanda che non vuoi, lo sta per fare.
- ...
- Sei cambiato anche tu
- No, io non cambio mai
Non dargli tempo.
- Cambiamo tutti
- Sì, cambiano tutti.
Maledizione, lo sta per fare, gli hai aperto le porte.
- Sai che ti cercavo per...
- Ti va se ci fermiamo qui?
- Qui in mezzo alla strada?
- Sì, mi sono ricordata di una cosa da fare.
Ti guarda fino nel cuore. E tu lo sai che dopo ti sentirai più sola.
- Ne sei sicura?
Dì di no, stavolta dì un no sincero.
- Ne sono sicura.
- Come vuoi tu.
Adesso voltati e saluta.
- Se cambi idea io sono qui.
La cambierai mille e più di infinite volte, ma non rispondere.
- Ci penserò.

E sono rimasta sola. Accoccolata dentro il mio nido intrecciato di dubbi e ore. A covare segreti delicati e il desiderio di non perderlo più.


domenica, dicembre 20, 2015

Le storie di me che tesso per me | Le cose da proteggere

«Tutte le volte che tentavo di chinarmi per raccoglierlo qualcuno mi toccava la spalla per chiedermi di alzarmi. Accadeva ogni benedetta volta e alla fine impazzii.
Mi sembrava di non poter raggiungere nulla, di dover chiedere sempre aiuto e, perdio, io non volevo chiedere aiuto a nessuno.
Feci mille tentativi, rischiai di nascosto, provai a distrarli, una volta cercai persino con un bastone di trascinarlo fino all'orlo del mondo, volevo tentare di prenderlo mentre precipitava dall'alto.
Avevano buone ragioni, io lo capivo, ma davvero ero sicuro, non avevo il minimo dubbio e ogni volta che qualcuno mi spingeva ad alzarmi io lo desideravo maledettamente di più.
Qualcuno provò a farmi ragionare, qualcun altro non comprendeva la mia ostinazione, c'era chi mi guardava con diffidenza e chi persino con docile commiserazione. I più, per lo più, mi ignoravano semplicemente. Solo una volta qualcuno mi derise con disprezzo, ma io capii, quella volta lo capii subito che era un uomo senza desideri, e se hai la sventura di nascere senza desideri o di non riconoscere i tuoi bisogni, allora non puoi che crescere crudele.
Io sapevo di volerlo, lo sapevo di sicuro, non c'era dubbio, né necessità, né mai circospezione. Era mio ed io l'avrei raggiunto ad ogni costo.
Provai a raccogliere le forze, se fossi stato scaltro, più svelto e forte, non sarebbero riusciti più a fermarmi. Per rallentarli tentai di persuaderli che in me aveva finalmente vinto l'incertezza, che avevo finalmente imparato a vestire di un cinismo allegro la mia rassegnazione e che avrei dormito quieto accanto alle mie paure. Li convinsi, iniziarono persino a guardarmi con rispetto, avevamo in comune tante cose adesso che avevo capito. Potevo sedere al loro desco e una volta, spavaldo, osai persino elargire un consiglio su come compiacersi del diniego. Ero convinto di farcela.
Riuscii a tener duro per molti mesi e quando capii che era giunto il momento mi lanciai a raccoglierlo con una foga cieca e sorprendente. Mi spinsi fortissimo in avanti e pensavo d'esserci riuscito quando qualcuno mi toccò con calma per chiedermi di alzarmi.
Avrei voluto distruggere ogni cosa, credevo di aver finito la pazienza e iniziai a pensare di non poter sopportare ancora la consapevolezza così forte dei miei limiti.
Nessuno sembrava capire le mie ragioni, ero capace di una lucidità che nessuno comprendeva e con chiarezza avrei potuto spiegare che non c'era altro motivo per cui io fossi lì. Alla fine davvero impazzii...»

« ...e poi?»

«E poi continuò ad accadere quello che accadeva da sempre senza che io ne avessi mai preso coscienza. Un giorno come gli altri mi accorsi che ad ogni risveglio il mio entusiasmo si svegliava con me, mi restava vicino di continuo e contro ogni previsione, era la compagnia più simpatica di cui potessi circondarmi in avanti. Mi resi conto che negli anni avrei dovuto proteggerlo dalle malie della disillusione e così feci.
Lo difesi anche dal fallimento più sfiancante finché, quando fummo abbastanza grandi e fui capace di ascoltarlo, capii che non vedeva l'ora di spiegarmi quanto fosse più emozionante e sorprendente desiderare di voler raggiungere qualcosa pur senza sapere se prima o poi ci saremmo riusciti.»





lunedì, settembre 24, 2012

Le storie di me che tesso per me | Io non sento la Musica

"Sono quegli attimi lì, gli attimi impercettibili in cui è fantasia solo il rumore della realtà, quelli in cui una storia, La storia, prende senso...
 Ma non ricordo se queste ultime parole, le dissi io o lei."


Le disse lei, poi ricordai, e si trattenne dal ridere. Per un attimo pensai che mi stesse prendendo in giro, non c'era da ridere, ma lei rideva.
Se proprio vuoi scriverla, vai a braccio.
A braccio? Come pensi che possa andare a braccio se devo scrivere una storia? La tua, poi.
Come adesso, fai come stai facendo adesso, va benissimo.
Non ricordo cos'altro accadde ma uscimmo dal bar ed era autunno, c'era una foglia secca davanti all'ingresso e lei col naso all'insù cercò l'albero da cui veniva. Non c'erano alberi e la schiacciò piano, porgendo l'orecchio curiosa.
Facemmo un patto, non avrei più ascoltato quell'elenco fino al nostro prossimo incontro. Mi avrebbe chiamato lei se c'era qualcosa da aggiungere, ma non chiamò.
Aspettai  una telefonata in primavera o una lettera con dentro una nuova canzone, e invece niente. Mi chiedevo se davvero nulla di nuovo fosse accaduto nella sua vita. Non le scrissi, né la chiamai. Aspettai a lungo finché un giorno mentre sfogliavo un catalogo d'arredamento, ripensai ad una di quelle canzoni, Elenco delle cose che non so di Lara.
Non riuscii a trattenermi e mancai al nostro patto. Non sapevo se quella canzone fosse una delle sue preferite o non le piacesse affatto, mi sedei e le scrissi subito. Le scrissi che avevo letto qualcosa su quel catalogo che in qualche modo mi aveva riportato alla mente Buonvino.
Era ora! Disse lei esultando al telefono nel cuore della notte.
È tardi in effetti, replicai io ridendo.
Ti ho aspettata, sai? Ti ho aspettata a lungo. Aveva la voce morbida e fresca, nonostante l'ora.
Tu aspettavi me? Ero io che aspettavo te! Le risposti subito di rimando.
Avevi voglia di scrivere o c'è qualcosa che vuoi chiedermi? Mi chiese.
Forse ho solo voglia di scrivere, le dissi con sincerità.
Allora fai come ti chiesi al bar, vai a braccio e scrivi finché ne hai voglia.
Volevo scrivere di lei a dire il vero, ma non ebbi il coraggio di chiederle della sua vita. Mi venne il dubbio che cercavo solo roba nuova su cui lavorare, e per pudore mi trattenni.
Non le ho ascoltate più nemmeno io, sai? A volte sembrava leggermi nel pensiero.
Perché? Le chiesi.
Avevi ragione tu, non c'ero io tra quelle canzoni. Hanno il sapore amaro della liquirizia. Mi sorprese.
Dici davvero?
Sì è amara la liquirizia!
Oh! Non intendevo quello! Sbottai.
Non c'ero io, c'era il passato. E c'eri anche tu, disse quasi sottovoce.
Io?
Non c'è musica senza qualcuno che l'ascolti e io ho scelto te per ascoltarla. La sua voce s'era fatta umida.
Piove, lo senti? Mi chiese.
Sì. Risposi subito, ma in realtà impiegai un attimo a capire.

Non so se quella notte fui io a tenere sveglia lei  o lei me, ma senza dir nulla mi accorsi così che non avevo nulla da scrivere.
Io non sento la musica, mi sussurrò un'ultima volta, leggera.
Erano le prime piogge d'autunno, rimasi in silenzio per lasciarle ascoltare le gocce sul vetro.
Non era un compito greve custodire il suo passato. Sentiva il presente e lì da qualche parte era iniziata La storia.
Non avrei più scritto. Misi in bocca una liquirizia e arricciai il naso, sollevata.





domenica, maggio 13, 2012

Le storie di me che tesso per me | Le lampare

«Eravamo seduti su una panchina, era l'una di notte, avevamo davanti un mare profondamente nero e secco. Ricordo delle nuvole, ma forse accavallo quella notte ad un'altra».
Mentre mi raccontava restai in silenzio, so che un buon racconto inizia con un buon silenzio di chi lo ascolta.
«Ci incontravamo di notte, restavamo sempre fino a tardi, come se al mattino tutto finisse. Tentavamo d'allungarle oltre l'estremo limite, all'alba. Io guardavo avanti, fisso, non avrei saputo in quale altro posto tenere lo sguardo. Osservavo un punto indefinito oltre la riva del mare. Intendo la riva del mare dall'altra parte del mondo. Fissavo un punto nel buio sulla linea impercettibile dell'orizzonte, guardavo oltre. C'era qualcuno lì intorno, al di là di noi. Non ricordo bene, ma man mano la gente iniziava a sparire. Ero troppo distratto per accorgermi dove andasse a finire, credo semplicemente rientrasse in casa.
Lei mi parlava a singhiozzo. Mi spiegava i motivi senza usare mai dei precisi perché. Non ne aveva il coraggio, pensavo. 
A un certo punto nel buio apparve la poppa illuminata di una barca a remi. C'era un uomo chino sull'acqua. Cercavano i pesci. Lì per lì mi distrassi.
Mi distrassi quando mi resi conto di quanta poca luce servisse ad illuminare il fondo del mare. Ripensai alle parole appena ascoltate e mi venne una gran voglia d'urlare».
«L'hai fatto?» chiesi.
«Certo che no. C'era un silenzio assoluto, era impensabile urlare»
«Eppure forse sarebbe servito»
«Sì, credo anch'io. Sarebbe servito, ma poi non avrei saputo ascoltare più nulla. Restai in silenzio, urlando dentro. Ogni tanto domandavo qualcosa. Passava sempre un secondo prima di ricevere una risposta adeguata e nell'attesa mi veniva voglia di chiedere sempre di più. Risposte più esatte, precise. Volevo avere risposte che non lasciassero dubbi».
Ero in silenzio anch'io e anch'io avrei voluto fargli molte domande. Sul perché fosse lì quella sera, sul perché non fosse andato via prima.
«Io quelle parole le avevo già sentite» mi disse. «Credo di saper ascoltare meglio i silenzi delle parole. Non ne sono del tutto certo, ma inizio a credere che c'è qualcosa, dentro i silenzi, che io afferro prima degli altri, prima delle parole»
«E allora perché non le hai chiesto di restare in silenzio?»
«Perché è in me un frusciare continuo. Dopo i silenzi, mi attraversano parole e pezzi di parole, continuamente. Le scompongo, le ricompongo, costruisco, decostruisco, nell'attesa di una risposta»
«A quale domanda?» chiesi.
«A nessuna domanda, aspetto la risposta ad uno stato d'animo incerto. Ad un vuoto di senso, a qualcosa che afferro ma che non riesco a capire. Una domanda che è fatta di sensazioni, che ha senso porre e vuole una risposta fatta di sguardi, gesti, accenni e sussulti. Ma poi non la tollero. Cerco una risposta che poi io non tollero se l'incertezza non svanisce del tutto».
«Credo di non seguirti più» gli dissi con sincerità.
«Immagina d'essere un pesce rosso. E immagina d'essere in una boccia di vetro al centro di un tavolo. Ci sei?»
«Sì, continua pure» risposi.
«Ecco, io a volte sono quel pesce. Percepisco suoni, rumori, colori, sapori, gli odori, la realtà tutta, amplificata. La percepisco, eppure so che è il muro dell'acqua ad amplificarla. E mi serve un modo per adeguarla alle giuste misure. Per riportarla alle giuste misure io ho bisogno di trovare risposte esatte e precise come un sonar nel buio»
«Non puoi avere sempre una risposta esatta, la maggior parte della gente non le ha nemmeno per sé le risposte esatte»
«Ecco, questo lo so. È per questo che le mie domande sono sempre tante e precise. Come se mi aspettassi di comporre le risposte a piccoli pezzi».
«Quando forse invece basterebbe una sola domanda precisa, del tempo per elaborarla e la pazienza di aspettare una risposta che sia ben scelta e pensata...» risposi io, stavolta d'impulso. E lui rimase in silenzio.
«Ho in me domande lunghe e complesse e pretendo risposte che accorcino le mie percezioni, hai ragione. Forse dovrei smetterla di sentirmi il pesce e di chinarmi sull'acqua a cercarmi» mi disse. «Quella sera comunque tutto finì. Lei non aveva risposte per sé e io mi diedi da me quelle di cui avevo bisogno. Rimasi a guardare le lampare però. L'acqua era così trasparente che si riusciva a vedere il fondo del mare» concluse e aggiunse «A ben pensarci, io non sono un pesce rosso, ho in me luci che illuminano bene al fondo e forse ogni tanto dovrei solo sollevare lo sguardo e senza risposte fidarmi del buio, fin'oltre al suo limite, all'orizzonte».




martedì, febbraio 28, 2012

Le storie di me che tesso per me | Il punto d'equilibrio assoluto

La questione è semplice, devi trovare le tue coordinate. Il punto d'incrocio, quello esatto. Fa nulla se cadi in pieno oceano, l'importante è che tu lo conosca. È una via di mezzo, letteralmente. Il vero e il falso. Ed è relativo. Se sei o bianco o nero, sarai il grigio, se sei o terra o acqua, sarà il fango, se sei giallo o blu, sarai il verde. Tu lo trovi e...
Io lo trovo e...?
...e sai dove trovarti.
Io lo trovo così so dove trovarmi, dici.
Sì, qualcosa del genere, dico.
E se io volessi essere solo il bianco? o solo il vero? o solo acqua? o solo il blu?
...
...non funziona.
Se tu volessi essere solo il bianco o solo il vero o solo acqua o solo il blu, avresti un bel da fare a trovare ciò che manca. e saresti sempre insoddisfatto.
...
...funziona.
No, non funziona. E sono insoddisfatto lo stesso.
Non ho detto che un punto d'incrocio dev'essere soddisfacente.
Ah, no?
Tu, intanto, trova le coordinate, poi, come ad un bivio, imbocca una strada.
E che senso ha? Se ne imbocco una non c'è più l'incrocio.
...ecco, no. Credo funzioni così: tu trova le coordinate, il tuo punto d'equilibrio assoluto, poi scegli una via. Ti accorgerai ad un certo punto se è quella giusta e se lo è prosegui avanti senza fermarti. Ma se non lo è, volta le spalle e senza vagare sperduto, ricorda le tue coordinate e torna subito indietro.
È un'idiozia. Non è un equilibrio questo, se lo ritrovo solo quando lo perdo.
È equilibrio proprio perché lo ritrovi appena lo perdi. Ed in bilico non si può stare a lungo. Trova le tue coordinate e quando avrai accettato che è in te il bianco e il nero, terra ed acqua, vero e falso... non accontentarti del grigio, né del fango, né dell'incertezza o solo del verde. Scegline una. Scegli una via.
E poi?
E poi capirai se è quella giusta, quando, lontano dal tuo punto d'equilibrio assoluto, non ti sentirai insoddisfatto. né instabile. né perduto.





martedì, dicembre 20, 2011

Le storie di me che tesso per me | Ad alto volume

E continuavo ad alzarla, la musica, certo.
Ma se tu non sopporti la musica alta.
Appunto, era assordante.
Ti dispiace spiegarmi? Non mi piace farti domande continue.
Niente, continuavo ad alzare la musica, e non ho smesso.
Ma perché? Si può sapere?
Perché in quel momento non mi è venuto in mente nessun altro modo per smettere di pensare.
Che pessima scelta...
Tu non lo capisci. Tu non lo sai com'è quando inizio a pensare e un pensiero s'incolla. S'incolla alla mia corteccia come i lecca lecca sciolti in borsa. S'appiccica e fa schifo. Non riesci a tirarlo via. Se gli giri intorno finisce che t'appiccichi pure tu, non c'è verso. Sai quando la gente dice d'avere un pensiero fisso? Quella gente lì non ha idea cosa significhi un pensiero fisso, immobile, inchiodato. Lo dicono per dire, perché si usa, perché rende l'idea di una cosa che non ti togli dalla testa, ma non è mai vero. Loro poi riescono a scollarlo. Non è mai fisso davvero.
E tu no?
No io no, nemmeno dopo averlo rivoltato come il budello d'una capra.
Che schifo. E la musica che c'entra?
Perché poi, io quel pensiero lì, lo faccio suonare. E non sai che bel suono è, quello d'un pensiero incollato senza più senso. Solo allora abbasso il volume... piano, piano, piano. E finalmente riesco ad ascoltare gli altri, di pensieri.






lunedì, ottobre 17, 2011

Le storie di me che tesso per me | Come le viole

Poi, ecco, ti stavo raccontando, mi sono fermato di botto e una signora, anziana peraltro, sbattendomi contro stava per cadere. Mi sono scusato per un pezzo, ero mortificato e più mi scusavo più m'arrabbiavo perché mi stava distraendo dal mio pensiero e più m'arrabbiavo, più mi sentivo in colpa e continuavo a scusarmi! Un incubo!
Gesticolava come un matto e io ridevo.
Risolto l'incidente con la vecchina poi hai ripreso il filo? gli chiesi a quel punto.
Sì, anche se ho qualche difficoltà ad essere analitico e preciso, iniziò a spiegarmi. Adesso per quanti miei giudizi sugli altri io ricordi, con molta più fatica riesco a ricordare quelli altrui su di me. Lì per lì quando ho incontrato l'uomo delle viole, non avendo capito subito, non ho considerato gli aspetti pratici per risolvere il problema. Potrei tentare con carta e penna e raggruppare in categorie quelli che si somigliano, ma ho l'impressione sia solo un espediente faticoso e vano.
Non credo ti sia utile, gli dissi con sincerità. Non puoi chiedere o parlarne ancora con lui? Forse potresti semplicemente ripartire da zero, da oggi, da adesso. Inizi e da ora in poi farai sempre attenzione a questi dettagli.
Chiamali dettagli! È praticamente una rivoluzione! Io non so nemmeno se ci riuscirò mai. E no, non posso chiedergli. Che poi mi chiedo... il mio appetito di conoscenza può non passare attraverso giudizi e conclusioni? Posso non farmi divorare dal bisogno di sindacare sul se una cosa è o non è come io credo?
Gesticolava ancora.
Melodrammatico! Sei un attore nato! gli dissi ridendo.
Si mise a ridere anche lui, poi tornò subito serio e guardandomi disse. Io credo che un giudizio sull'altrui essenza è una violenza.
Abbassai lo sguardo, riflettendo. Eppure non si può né credere di non essere mai obiettivi, né in effetti arrogarsi il diritto di sapere chi e perché l'altro fa o dice qualcosa, conclusi perplessa.
Appunto, allora sarebbe da stabilirsi un limite di tolleranza superato il quale uno sceglie e decide. Solo che così, anche parlandone noi adesso, sembra una questione pomposa da filosofi, invece è un problema giornaliero, assiduo, comune, umano, diffuso, è la difficoltà più grande nel mediare con se stessi verso l'altro. Dove per altro intendo chiunque altro, persino se stessi, quando ci si giudica, mi disse angustiato.
L'estrema conclusione del tuo ragionamento è non fidarsi mai di nessuno e di star sempre a vedere, analizzare, riflettere, capire, tentai di concludere.
Io non mi fido quasi mai di nessuno eppure sparo giudizi a raffica. Ho iniziato a rendermi conto di quanto sia sbagliato quando qualcuno ha iniziato a sparare giudizi a raffica su di me e a farci caso solo perché non facevano breccia e scansandomi avevo il tempo al ralenti di notarli. E sai cos'è la cosa più incredibile che ho capito? mi chiese.
Provo a indovinare? risposi.
No, no! Era retorico! Mi incalzò subito. Te lo dico io. Ho capito che i giudizi dati con leggerezza e facilità da qualcuno che tu credi ti voglia bene, alla lunga fanno ancora più male.
Dici? Eppure dovrebbe essere il contrario, non dovrebbero ferirti perché sai che sono comunque "sparati a raffica" come dici tu, a fin di bene. No?
No. Perché se tu vuoi bene a qualcuno, allora devi prenderti cura non solo delle insicurezze, delle paure, ma anche delle certezze, dei pilastri su cui si fonda la sua identità, la sua essenza, il suo esistere qui e ora al mondo. E ci sono un'infinità di sfumature, di microscopici dettagli che con buona probabilità tu non vedi, non noti e che invece fanno il ritratto pieno e completo di chi hai davanti.
Mi stai confondendo e quello che dici, la disposizione d'animo in cui conti di metterti, mi sembra pericolosa. Se concedi il beneficio del dubbio a tutti, se non ti autodetermini nel decidere chi hai davanti, come fai a relazionarti senza rischiare d'essere ferito o prendere un abbaglio? In realtà avevo un milione di domande, ma era una riflessione da rivoltare come un calzino, non avevo nemmeno idea di quale fosse il verso giusto per affrontarla.
Hai ragione. È un po' innaturale pensare di non dover o potersi fare un'idea sugli altri. Finisci poi per non fidarti di nessuno. Abbassò lo sguardo lui questa volta, stava pensando. Ma sai cosa credo? Io credo che dare un giudizio sugli altri sia una questione di una delicatezza incredibile. Bisogna giudicare gli altri solo quando si è dubitato di sé stessi fino in fondo. Bisogna essere accorti. Anche perché, io penso, continuando a sparare giudizi sugli altri senza esser prudenti, si corre il forte, fortissimo rischio, di mettere negli altri dubbi terribili perché inutili. Perché del resto, se c'è una cosa che ho imparato dall'uomo delle viole, è che le incertezze, quelle altrui, non devi mai, mai, osare toccarle... se non con mani tremanti e nude, con mani umili, morbide e delicate.
Delicate come le viole, sussurrai.
Come cogliere le viole... sussurrò piano anche lui.




martedì, settembre 27, 2011

Le storie di me che tesso per me | I buchi nel vetro

Non è una questione d'impegno, che poi saresti capace di convincerti che lo faccio di proposito, gli dissi. No, è che mi sembra una reazione, solo una reazione, mi rispose. Capita, cioè capita spessissimo, adesso per esempio sono andato in fissa coi buchi nel vetro, iniziai a spiegargli. Sei di nuovo in fase creativa? È un buon segno, non succedeva da qualche anno ormai, mi fece notare. Più o meno, sono andato in fissa con la cedrata e coi buchi nel vetro. Ecco, cercavo di spiegarti che non accade in modo consapevole, a volte ho come l'impressione che la gente, nella mia immaginazione, chiaro, si aggrappi con tutte le forze a qualcosa nella mia vita, come se volesse riempirla a tappo, approposito di bottiglie. Mi guardava con uno sguardo fermo, quasi un rimprovero ma forse era la mia metafora a non essere delle più felici e provai di nuovo. Tu vivi qualcosa con qualcuno e ci sono dei dettagli, piccoli, apparentemente insignificanti, che da quel momento in poi ti ricorderanno per sempre quella persona, ok? chiesi. Sì, ok, rispose. Bene, una roba tipo il colore del grano o la rosa di Exupery, aggiunsi. Sì, sì, ho capito, vai avanti, si stava spazientendo. Allora poi succede che in un altro posto, in un altro tempo, altro clima, altra stagione, altri colori, suoni, profumi, rumori, quel minuscolo dettaglio ricompare senza che tu possa prevederlo, all'improvviso, e se lì per lì tu pensi oh caspita, ma guarda te che coincidenza! in realtà, ecco il punto, a me sembra che appena qualcosa di nuovo sopraggiunge, il vecchio ricordo e in senso figurato la persona a cui è legato si aggrappi al minuscolo dettaglio con le unghie e con i denti! Ora suonava meglio. Eh, dunque? A lui forse no. E dunque quando io aggiungo un nuovo significato si sente il rumore mpach! delle grinfie del vecchio ricordo che si staccano a ventosa! Adesso mi sembrava d'esser stato molto più chiaro. Eppure lui continuava a guardarmi un po' teso e persino costernato. Non ti dispiacerà mica per i ricordi che lascio indietro?! Gli domandai. Mah, non so, sembra una cosa un po' triste, se la guardi in modo analitico sembra che tu ti voglia impegnare a dimenticare, si dice 'chiodo schiaccia chiodo', replicò e io mi offesi. Io non perdo e non schiaccio proprio niente! Dissi piccato. Non te la prendere! Mi disse ridendo.
Non c'era nulla da ridere, era una cosa molto seria. Io non volevo perdere nulla, non ero disposto a farlo e avrei riempito cantine, soffitte e solai pur di non dimenticar nemmeno un dettaglio. Io già sapevo che dimenticare era il primo passo per perder qualcosa, qualcuno, e già il modo in cui il presente diventa un ricordo era per me una questione assai dura da sopportare e una costante sempre in rinnovo nella mia vita. Ma capitava spesso, con mia sorpresa, che qualcosa scivolasse sull'altra all'improvviso. Così non è che fosse una questione d'impegno per vincere il passato, anzi. Non ero affatto pronto per lasciarli andare, eppure m'accorgevo d'aver dovuto accettare di lasciar tutto per sempre e per questo con piglio sadico ero io a staccar una ad una le manine che s'aggrappavano nella mia mente mpach! Avrei voluto rifiutargli di diventare ricordi e mi sarei trattenuto a bere con loro dalla stressa grolla ogni sera, ma diamine erano coincidenze, nessun'impegno e del resto non sempre si sceglie il proprio passato.
E poi alla fine avevo da risolvere la questione dei buchi nel vetro e una mezza idea di aspettare l'aiuto di un tipo che ero sicuro si sarebbe divertito a giocare con me tra le bottiglie.
E però ancora non ho capito cosa c'entra la cedrata, le bottiglie e i buchi nel vetro con la faccenda dei ricordi e delle coincidenze, mi chiese il mio amico alla fine. Niente, non c'entra proprio niente, gli risposi... intanto, sai mica come si fanno i buchi nel vetro?




giovedì, settembre 08, 2011

Le storie di me che tesso per me | Musica, una storia che scrivo per te

"...riuscii a trattenermi e non le chiesi cosa sentisse.
Le foglie del tè erano al fondo ed iniziavano ad asciugarsi di nuovo."



Mi chiese di scrivere una storia. Ascoltai ogni canzone di quella lista, una dopo l'altra, ogni notte, in metropolitana, mentre lavoravo e lavavo i piatti. Le ascoltai come mantra, le ascoltai credendo di dover trovar dentro un significato, un senso, un segno. Poi, nulla. Nessuna idea, nessun lampo, niente da raccontare. C'era una storia, delle storie tra quelle canzoni, attimi e momenti, e alcuni mi sembrava di riuscire ad immaginarli perfettamente. Ma non c'era nulla che mi sembrasse importante, nulla che valesse un racconto, non c'era una storia unica e assoluta. Così tornai da lei e le restituii sconfitta la sua lista.
Non c'è storia, le dissi. Lei mi sorrise. Non c'è musica forse, rispose strizzandomi l'occhio.
Ci sedemmo nello stesso bar, allo stesso tavolo, con la stessa cameriera e nessuna bicicletta legata in strada. Due caffè, chiesi. Non mi piace il caffè, lo sai, mi rimproverò. Lo so, ma abbiamo bisogno di roba forte, le spiegai secca, ridendo. Che c'è? Me lo spieghi? Mi hai fatto tornare in questo bar e per fortuna oggi non piove, ma che ci facciamo qui? mi incalzò mentre ancora ordinavo la colazione. Aspetta un attimo, risposi, e finii di ordinare.
Perché hai ordinato anche i pancake? mi chiese. Erano in una delle tue storie, replicai sorridendo. E lei di rimando sorrise di più.
Il punto, iniziai a spiegarle, è che io tra quelle canzoni non sono riuscita a trovare te. Ti ho cercata, ti ho inseguita, ti ho visto ragazzina, ho capito che non dovevo cercarti in Buonvino, ma erano tutti pezzi slegati. Quella che sei adesso, dov'è?
Era una domanda ruvida, fatta in modo troppo brusco e sapevo d'essere invadente. Così aggiunsi... Io voglio scrivere di lei, di te, attraverso quelle storie ma senza farti attraversare il passato. Potrei scrivere una storia per ognuna di quelle canzoni, ma non è La storia.
Lei mi ascoltava, sorrideva ancora e ancora, ogni tanto si distraeva schiacciando con il dito dei granelli di zucchero sul tavolo. Non parlava, sorrideva compiaciuta e basta.
Sorridi perché sto dicendo un sacco di cose senza senso? domandai a quel punto. No! mi rispose. Continua... mi chiese.
Ho finito, non la so scrivere, ecco, tutto qui, conclusi. Mi guardò con un'espressione felice e soddisfatta. Perché mi guardi così? domandai ancora, sorridendo anch'io stavolta.
Vedi... iniziò... quando ti chiesi di scrivere quella storia, non avevo idea di quanto fosse complicato. Speravo che bastasse farti ascoltare quelle canzoni, rivivere le mie storie, per farti trovare un filo logico. Sapevo, ero sicura, che tu avresti saputo raccontare ognuna di quelle canzoni e creare una storia unica e ricca, che bastasse a se stessa, come un collage.
L'ascoltavo e già sentivo crescere in me il fastidio per averla delusa, per non essere stata all'altezza. Iniziavo a cercare dentro di me il modo di giustificarmi, di spiegarle perché non ero riuscita a scriverla, la sua storia. Lei se ne accorse e si fermò. Perché ti sei fermata? Vai avanti, le dissi aspra. Lei capì e continuò.
Poi, ripensando a quel pomeriggio al bar, mi sono ricordata del tuo silenzio. Del mio? dissi. Sì, del tuo silenzio quando ti diedi la lista. Restasti in silenzio e lì io capii che tu sapevi di non dover chiedere perché non sento la musica. Sarebbe stata la domanda sbagliata, avrebbe rovinato tutto. E tu l'hai capito.
Io non riuscivo più a seguirla, cercai di riflettere ed era tutto confuso. Non riesco a capire e non ho saputo scrivere la tua storia, mi dispiace, le dissi quasi sottovoce.
Lei prese un granello di zucchero e me lo mise sulla mano, io alzai lo sguardo e vidi che sorrideva raggiante. Un gesto inutile, pensai.
Ecco, disse, è un momento come questo. Il pensiero che stai facendo adesso, il pensiero che hai fatto quel pomeriggio quando non mi hai chiesto il perché o quando non hai domandato cosa diavolo stessi ascoltando nella mia testa, visto che non c'era alcuna musica nell'aria. Mi capisci?
Restai in silenzio e lentamente mi sentii sorridere. Avevo capito ed era anche semplice.
...nella musica non ci sono questi silenzi, la musica non sa descrivere l'attimo in cui questo granello di zucchero poggia sulla mano e il pensiero che ne segue. Lo può scrivere, ma non ha suono, come non ha suono lo zucchero che scivola nel tè ed è una danza, come non ha suono la danza del pulviscolo di polvere nella luce del sole mentre la guardi o non ha suono quella ventata che ti avvolge e ti confonde i sensi mentre sei seduto per terra e aspetti qualcuno. Non ha suono l'odore dell'aria in un'isola lontana mentre qualcuno promette di proteggerti. Non ha suono il sapore dello sciroppo d'acero sui pancake. Non ne ha nemmeno il colore di un taxi mentre vi chiedete chi è dei due ad andar via. Puoi descriverlo, ma non ha suono, né parole. Sono quegli attimi lì, gli attimi impercettibili in cui è fantasia solo il rumore della realtà, quelli in cui una storia, La storia, prende senso...
Ma non ricordo se queste ultime parole, le dissi io o lei.


sabato, agosto 20, 2011

Le storie di me che tesso per me | Musica

La maniglia della porta era fredda e appena entrata mi tolsi la sciarpa. Mi assalì un forte odore di zucchero e caffè e brioche, scorsi con lo sguardo i tavoli, cercandola. Vidi studenti chini a leggere o a ridere e fumare, un uomo d'affari con lo sguardo perso e le mani giunte sulla tazza calda, due donne che sfogliavano una rivista d'abiti da sposa e lì, vicino alla finestra, lei. Aveva i capelli raccolti con dei ciuffi che le scendevano sul viso, le guance arrossate e gli occhi chiusi col naso all'insù. Muoveva leggermente la testa, come se ascoltasse una musica invisibile. Sono tutt'orecchi, le dissi sorridendo mentre mi avvicinavo al tavolo. Eccoti! rispose.
Si dondolò un po' sulla sedia mettendo prima un mano e poi l'altra sotto di sé, sembrava un pinguino. Mi guardò mentre appesi il cappotto alle mie spalle. Hai già ordinato? chiesi. Sì, poco prima che arrivassi, disse alzandosi per far cenno alla cameriera di tornare. Mi sedetti mentre già lei ordinava anche per me. Due tè al latte, domandò. Due tè al latte, ok, qualcosa da mangiare per colazione? fece, gentile, la cameriera. No, per ora nulla, grazie, aggiunsi io.
Ho pensato ad una storia per te, una storia da scrivere, mi disse subito. Che storia? Raccontamela, risposi poggiando il viso tra le mani e i gomiti sul tavolo. Sì! esclamò lei facendosi più seria. È una storia triste? chiesi. No, è una storia vera, replicò. Va bene, inizia, ti ascolto.
Hai mai letto Musica di Mishima? mi domandò prima di iniziare a raccontarmi. Sì, tanti anni fa, risposi. Bene, Reiko, la ragazza, dice al dottor Kazunori che non sente la musica, ricordi? Annuii. Alla fine era solo una metafora per spiegare al suo psicanalista che temeva d'essere frigida. Annuii ancora e lei continuò. Ecco, a me, quella frase lì "Io non sento la musica" al di là della metafora, mi ha sempre mandato in fissa. Ho sempre pensato che quella frase mi appartenga e che dovessi solo trovare il modo di riutilizzarla. E l'ho trovato.
Ci interruppe la cameriera poggiando sul tavolo le due teiere e le due tazze. In questa più piccola c'è il latte e qui lo zucchero, disse. Grazie, le risposi mentre, concentrata, giravo verso di me il manico della teiera più vicina. Di nulla! E tornò al bancone.
Stava guardando le foglie di tè dentro la sua teiera. Mi piace quando si distendono nell'acqua calda, è come se finalmente possano sgranchirsi, mi disse. Sorrisi.
Continua... le chiesi sollevando il coperchio della zuccheriera. Sì. Zucchero anche per me, mi rispose. Ti dicevo che quella frase, detta così, ha un senso bellissimo. Quel verbo, sentire, cambia sfumatura come se si facesse autunno all'improvviso. Mi guardava a tratti, per lo più fissava la finestra, assorta. Non è il solito sentire, come, chessò "Non ho sentito il campanello", è un sentire più profondo, più segreto e misterioso. In realtà credo che solo chi non lo sente, quel sentire, può capirlo. Era altrove e io cercavo di seguirla, seguendo, se non altro, la traiettoria del suo sguardo. Mi segui? chiese guardandomi dritta all'improvviso. Ci provo! Replicai ridendo. Ok! Rise.
La storia di cui devi scrivere è la storia di una donna che non sente la musica, mi disse tenendo la tazza a mezz'aria e guardandomi attraverso il buco del manico. Questo è plagio! Esclamai sorridendo. No! Posò la tazza con un tonfo. Non c'è metafora stavolta! Lei, la donna della storia, non sente la musica, non significa che sia frigida o che non l'ascolti! Mi incalzò, subito. E la storia dov'è? chiesi. La storia è una raccolta di canzoni, mi rispose. Io ti dò l'elenco e tu le ascolti. Quando hai finito di ascoltarle inizi a scrivere, mi spiegò. La guardavo, forse ero un po' confusa ma l'idea aveva qualcosa di interessante. E cosa scrivo? chiesi ancora. Non lo so. Ascoltale e quando le avrai sentite credo capirai che cosa scrivere. Oppure inventa, se preferisci.
Le finestre dei bar d'inverno mi sono sempre piaciute. Sembra che il legno trattenga a forza l'umidità per lasciare asciutto il vetro. Una galanteria insomma. Guardavo fuori e anche lei. Ero assorta e cercavo di capire che sforzo di fantasia mi ci sarebbe voluto per costruire una storia così. Lei richiuse gli occhi e ricominciò ad ascoltare la sua musica invisibile.
L'elenco ce l'hai già? Le chiesi. Sì, l'ho scritto su un foglietto. Me lo porse. Lo presi, sollevai la mia tazza, la tenni sospesa sotto le labbra soffiandoci dentro e iniziai a leggerlo

... l'elenco continuava, ne conoscevo solo alcune. La guardai e le chiesi se c'era un filo logico dentro quella raccolta. No, sono delle dediche, mi rispose. Ero tentata di chiederle altri dettagli, ma era prematuro, avrei dovuto prima ascoltarle. Va bene, conclusi. Presi il foglietto, lo piegai e lo misi sotto la zuccheriera.
Mi sembra una buona idea, mi disse pensando ad alta voce. Rimanemmo in silenzio, abbastanza soddisfatte entrambe e tutt'e due concentrate sul cane legato al manubrio della bicicletta posteggiata davanti al bar. Quando le vidi chiudere ancora una volta gli occhi e seguire il ritmo della sua musica invisibile riuscii a trattenermi e non le chiesi cosa sentisse.
Le foglie del tè erano al fondo ed iniziavano ad asciugarsi di nuovo.


martedì, agosto 16, 2011

Le storie di me che tesso per me | I granelli della clessidra

Lo trovai seduto sul bordo della fontana con la testa tra le mani e accelerai il passo per paura che gli fosse accaduto qualcosa di spiacevole. Ehi, tutto ok? Ciao, dissi. Sollevò il capo e mi sorrise raggiante. Allora stai bene! Quasi gridai. Non so se sto bene ma forse ho trovato una soluzione, mi rispose. Andiamo a bere qualcosa? suggerii io. No, restiamo qui, fermi, ho paura che se mi distraggo risucceda, mi disse serio. Mi sedetti accanto a lui in silenzio aspettando che gli venisse voglia di spiegarmi. Tornò con la testa tra le mani e i gomiti sulle gambe, io tacqui. Quella mattina non ebbi risposta.
Passarono giorni e poi settimane e poi mesi su mesi, non si fece vivo e io non gli chiesi nulla, rimasi in attesa. Alle 11:11 dell'11 marzo finalmente si fece sentire. Ho risolto, vediamoci alla fontana, ti racconterò, disse ermetico. Va bene, ci vediamo lì, a che ora? chiesi. Alle 12:12 domattina, ti va bene? rispose in fretta. Sì, va bene, a domani, replicai.
Alle 12:12 ero lì, non capivo il motivo di un appuntamento ad un orario tanto preciso, quindi spaccai il secondo. Lui non c'era, arrivò esattamente un minuto più tardi. Allora finalmente mi racconti? domandai io solerte. Cosa? ribatté. Come cosa? Cos'è successo? Come hai risolto? lo incalzai. Si sedette, feci lo stesso e a mezza voce gli chiesi ancora una volta di spiegarmi. Vedi, è iniziato tutto quando mi sono reso conto che passavo la maggior parte del mio tempo ad aspettare qualcosa. Più esattamente la causa scatenante è stato il continuo ripetersi di alcuni accadimenti. Inspiegabilmente di anno in anno qualcosa di identico si ripeteva. Questa cosa era sfiancante, io aspettavo, aspettavo qualcosa, non arrivava e nel frattempo i fatti, le circostanze, gli eventi, si ripetevano costanti. Ho pensato, dico sul serio, che stessi completamente mandando la mia vita a puttane, ma poi quel giorno alla fontana, dopo tanto tempo, ho capito cosa fare. Solo a guardarlo si capiva che era cambiato. Cosa hai fatto? chiesi. Mi sono dato un appuntamento. Mi sono dato un appuntamento ogni singola volta che qualcosa si stava per ripetere. Chiaro, non è che si sia sempre ripetuto qualcosa che avesse a che fare solo con la mia vita, ma questo era assolutamente indifferente. Che riguardasse me o meno, io da quel giorno in poi, quando è capitato, mi sono sempre dato un appuntamento. Gli domandai in cosa consistesse il darsi un appuntamento con se stessi. Io ho aspettato, ho aspettato qualcosa che non aveva forma, non aveva dimensione e consistenza, non sapevo nemmeno cosa stessi aspettando e del resto aspetto ancora. Eppure la realtà mi scorre a fianco, il tempo continua a scivolare, si ritorna su quella spiaggia dove si è già stati, ti invitano a cena e ti trovi davanti lo stesso piatto che qualcun'altro ha già cucinato per te, ex litigano per una ex, capita di rivedere film già visti sullo stesso divano, si rifanno viaggi per mare già fatti, ti dicono parole che hai già sentito, tutto questo mi annienta. Tutto perde senso, si riavvolge il tempo e io inizio a desiderare di aver vissuto ciò che è già accaduto, in modo diverso. Perché se tanto qualcosa risuccede, se tanto capita a tutti, allora bisogna saper essere relativi, anche a se stessi. Quando succede, quando qualcosa si riverifica puntuale ed esatta, io sento che la mia attesa non ha alcun senso e non faccio altro che lasciarmi sfuggire il tempo e l'esistenza. Così prendo un appuntamento. Vado da solo, incontro me stesso, mi do un orario e un luogo. Come oggi alle 12:12 del 12 marzo.
Perché se sto aspettando solo te, prima o poi, ad uno qualunque di questi appuntamenti verrai ed io smetterò di scivolare come sabbia in una clessidra, disse.


sabato, luglio 30, 2011

Le storie di me che tesso per me | Se rinasco stavolta non muoio

Voglio controllare, le disse. Prova, se trovi il modo, gli rispose lei. Sei sicuro sia una buona idea? non ne era certa poi del tutto. Sì, io credo che sia come ti dico, replicò lui. Vorresti trovare le morti di ogni tua vita per capire dove inizia una e finisce l'altra, se ho capito bene, giusto? in fondo pensava fosse una cosa un po' idiota. Sì, voglio cercare il momento esatto, muori e poi rinasci, ci sarà un momento preciso dico io, lui ne era convinto. In una stessa vita?! lei no. Sì, ma mica quelle stronzate mistiche, parlo di una vita sola, muori e poi rinasci, un po' una cosa figurata, ma anche no, cercava di convincerla. Ok, tu vuoi rimuginare su tutta la tua vita per andare a cercare i momenti in cui stavi da schifo, solo per capire quando hai toccato il fondo e poi sei risalito, insomma? domandò lei con sincerità e un po' di disappunto. Detta così non suona bene e non è del tutto esatto. Ci sono delle, chiamiamole, fasi, ecco, ci sono delle fasi in cui la tua vita è in un modo e tu sai che ci saranno dei cambiamenti, eppure non immagineresti mai che di lì a un anno, due, sette, in realtà si sarà stravolta al punto da essere irriconoscibile, le spiegò lui. Va bene, quindi una specie di giro di boa? chiese ancora perplessa. Sì, immaginalo così se vuoi e poi rifletti sui grandi stravolgimenti della tua esistenza, se ci sono state delle volte in cui sei finita lì dove non avresti mai immaginato, con pensieri diversi, in un luogo diverso, con gente diversa, esigenze diverse, lui aveva le idee molto chiare. Ci provo... disse lei concentrandosi sul suo passato. Ecco, devono pur esserci dei momenti precisi in cui tutto cambia, le volte in cui dall'una passi all'altra vita, quelle sono delle, diciamo, micromorti? Micronascite? Vite così diverse che non ti sembra nemmeno di averle vissute, così lontane, così differenti tra loro, così distanti dal tuo essere qui ed ora, vite dimenticate di cui non parli mai o raramente tanto che persino chi hai intorno non immagina chi o cosa eri... le parlava lentamente e con calma. Ma io non vedo scollature tra passato e presente, mi sembra sia filato tutto liscio, certo ho fatto anch'io i miei errori e ho i miei rimpianti ma ricordo tutto e bene, ho tutto qui, gli disse picchiettandosi la testa. Tu no? gli chiese. Io sono morto e rinato otto volte, le ho contate, non riuscivo a crederci, sono tante, sono troppe. Per questo voglio controllare, le disse ancora. Allora prova, trova il modo e prova, ma poi torna al presente, mi sembra una cosa rischiosa, conoscendoti, lei rispose. Sì, ci provo, lo sembra anche a me, ma tanto non posso morire due volte in una stessa vita, concluse.




The Blood of Paradise  di Ken Wong

venerdì, luglio 15, 2011

Le storie di me che tesso per me | Il tuo colore preferito


By This River di Brian Eno

Gli dissi che non avevo un colore preferito. Sul momento non aggiunsi altro, non aveva senso spiegarmi, non mi credeva. Me lo richiese dopo qualche tempo. Non ho un colore preferito, ripetei. Nemmeno la seconda volta volle credermi, sembrava si fosse convinto che volessi fare la difficile.

Qual è il tuo colore preferito? Lo voglio sapere, mi chiese ancora. Qual è il tuo? chiesi io a mia volta. Il rosso, rispose. Ho avuto il mio periodo rosso! Avevo un cappottino, borse, fermagli, sciarpe, lenzuola, armadi, la mia vita era rossa, spiegai contenta d'aver trovato il modo di convincerlo. Mi guardò affatto convinto. Davvero vado a periodi, aggiunsi ancora. Adesso non so, forse è il mio periodo blu, ma per molto tempo è stato il verde, il periodo verde, avevo tutto verde, ciotole, tappeti, collane, bracciali, lampade, lenzuola, un blog, una sedia, compravo sempre piante e scrivevo su post-it verdi, gli raccontai. Mentre parlavo mi resi conto che il mio elenco non rendeva l'idea. Non era tutto verde, nemmeno era tutto rosso, e non è nemmeno adesso tutto blu, sono io che cambio colore dentro, mi sembrò utile precisare. Che non avessi un colore preferito era come non scegliere, quasi non aver indole, credo pensasse. Perché a te piace il rosso? chiesi a quel punto io. Il rosso è un colore caldo, che esprime forza, determinazione, passione, vigore, è un colore regale come il viola, mi spiegò puntuale. Il rosso "è un colore caldo, che esprime forza, determinazione, passione, vigore, è un colore regale come il viola" ripetei tra me e me pensando al rosso. È vero, il rosso è così, convenni. Il rosso è anche sangue, violenza, agitazione, è un colore che piace a molti uomini, rimuginai senza dirlo. Io ricordo bene il mio periodo rosso, mi sentivo padrona del mondo e il rosso è un po' così, dissi piuttosto. E adesso sei nel tuo periodo blu... possibile che tra tutti non c'è un colore che ti piace più di altri? ancora non riusciva a credermi. Non so se è il mio periodo blu, il blu è un colore ordinato, preciso, con il bianco fa il paio, ma anche con l'ocra, il tortora, l'argento... Forse sono nel mio periodo blu dissi e pensai, cercando di spiegarmi. Non ne parlammo più per un po'.

Adesso sei sempre nel tuo periodo blu? mi domandò sornione mesi dopo. Io non lo so, quando sono dentro un periodo non me ne accorgo, mi giustificai. Mi infastidì non esser presa sul serio. Non importa il periodo, a me piacciono tutti i colori, forse il bianco più di altri, risposi una volta per tutte. Il bianco, ripeté. Sì, non mi stanca, anche se è difficile che io mi vesta o compri qualcosa di bianco, tagliai corto. Il bianco non è un colore, sentenziò. Non è vero, io lo vedo, replicai. Sì ma è un non colore, ribadì. Chiamalo assenza di colore se vuoi, a me piace, e non aggiunsi altro. Il bianco fu una risposta soddisfacente a quanto pare, non chiese altro.

Il rosa non mi piace, per esempio, dissi un giorno. Questa cosa che è un colore da femmine non mi ha mai convinto, forse perché mia madre non voleva mai vestirmici, di rosa, esordii all'improvviso. Molti uomini si vestono di rosa, dichiarò lui. Sì, eppure non mi piace nemmeno sugli uomini, mugugnai. E il discorso si chiuse ancora.

Mi vesto di nero quando sono di malumore o la sera, dissi rispondendo alla sua domanda. E il blu? Il bianco? chiese, curioso. Sono tra i miei colori preferiti, mi tradii di nuovo. Allora non è il bianco? colse al volo lui. Sì anche, dissi convinta.

Il rosso, il verde, il blu, il bianco... io non sapevo cosa rispondere.
E l'argomento non era poi così tanto interessante, in fondo, credo lui pensasse.
Invece era importante, perché io un mio colore in realtà l'avevo e l'ho sempre avuto, ma quel colore non era una risposta alla sua domanda, non è il mio preferito tra tutti, non è mai stata la risposta a questa domanda.
Solo... il mio colore non posso dirti io qual è, voglio che tu lo scopra guardando dove cade il mio occhio quando guardo, voglio che tu sappia accettare che io ho mille colori preferiti e un debole per uno, unico ed esclusivo, un colore che non è il colore dei miei oggetti, dei miei vestiti o del mio arredamento, un colore che è solo una percezione vibrante, una sensazione, un colore che è il segreto che custodisco perché tu abbia qualcosa da scoprire senza chiedere, da conquistare senza pretendere, un colore come altri che quando però tu mi dirai Io l'ho capito, mi sentirò felice... pensai... solo che alla fine il blu adesso mi piace più di altri, invece dissi.

domenica, giugno 26, 2011

Le storie di me che tesso per me | Il cuoio delle scarpe

Mi disse che era certa. Nessun dubbio. Aveva fatto le sue prove e pur senza prove lei, in fondo, lo sapeva. Ero quasi ammirata. Non le piaceva cercar prove, che in un caso come questo, come in amore, proclamò, non ci devon esser prove, 'che le prove assomiglian tanto all'unghia che gratta sulla scarpa per vedere se è di cuoio, lasciandole un bel graffio, sospirò. Il paragone era un po' ardito ma calzante, in tutti i sensi. I graffi non li cancelli, concluse. Non ero d'accordo ma le dissi che se era certa avrebbe dovuto porre rimedio quanto prima. Annuì e se ne andò.
La vidi tornare qualche tempo dopo più determinata e risoluta. Le chiesi se era ancora convinta e la sua risposta mi sorprese. Ho comprato il lucido da scarpe venendo qui da te, disse. Risi e non capii se faceva sul serio. La guardai.
Ho comprato il lucido perché a questo punto io cancello tutto. Mi spiazzò.
Poi aspettai, in silenzio. Lei prese la scarpa e iniziò a lucidarla. La osservai bene. Ero sbigottita da quest'improvvisa decisione. Aspettai finché finì.
La tradì o forse non capii quel sorriso ch'ebbe sul viso quando si accorse che i graffi sparivano davvero. Ma tacqui, nell'attesa di capire se era seria o stava solo scherzando mentre lucidava un paio di scarpe.



sabato, giugno 25, 2011

Le storie di me che tesso per me | Il fumo della sigaretta.

Volevo scrivere una storia, io. Mi disse. Volevo scrivere la storia di uno che non ha mai fumato una sigaretta. Uhm, accennai. La storia, ce l'ho bella chiara in mente, è la storia di uno che non ha mai fumato una sigaretta e quindi va in fissa con le cose che fumano. Guardai il gelato che avevo nella tazza, fumava. Appunto, come il gelato troppo freddo. Mi spiegò. Uno che non ha mai fumato una sigaretta e però passa la sua vita a cercare cos'è che fuma. Il gelato troppo freddo, il fiato d'inverno, il bitume, i comignoli dei camini, l'acqua che bolle...  È un fissato insomma, ha deciso che vuole scoprirle tutte e va avanti così per tutta la vita. Ho capito, dissi. Riflettei e chiesi. Perché non ha mai fumato una sigaretta? Non ha mai fumato per paura di non avere abbastanza forza di volontà, per paura di non riuscire più a smettere. Ah, esclamai sommessa. Ma questa non è la parte interessante della storia. Concluse.